La storia di palazzo Franchetti

La sede di Pisa del consorzio “Consorzio 4 Basso Valdarno” (ex consorzio “Fiumi e Fossi”), sita tra Lungarno Galileo Galilei e via San Martino, vanta un’illustre storia che è giunta a maturazione nella forma attuale quando, diventata proprietà dell’autorevole casata ebraica livornese i Franchetti, ne fu affidata la ristrutturazione all’architetto Alessandro Gherardesca.

Il palazzo prima di divenire dei Franchetti, e assumere l’attuale veste ottocentesca, aveva subito una serie di trasformazioni nei secoli. Infatti era il prodotto dell’aggregazione di due palazzi cinquecenteschi, prima case-torri, appartenuti rispettivamente ai Lanfranchi e ai del Torto. Nel XVI secolo il patriziato pisano per manifestare la propria ricchezza, potenza e cultura, dava nuova forma decorosa e anche più preziosa alle proprie abitazioni, che, a differenza delle “fabbriche” precedenti, risultato di aggregazioni poco uniformi, si caratterizzavano ora per una chiara individualità e per un modello omogeneo che veniva sempre seguito. era necessario anche tener presente il forte vincolo costituito dalle preesistenti strutture medievali, e la scarsa disponibilità di risorse dei committenti pisani. ecco perché gli interventi erano parziali e per lo più “volti all’abbellimento”; ed è proprio su questo elemento che l’ultima erede dei del Torto rivolse la propria attenzione.

La prima attestazione dell’esistenza di due residenze nobiliari risale al 1589, da un atto notarile in cui nanna di Michelangelo da Forcoli, vedova di Ranieri del Torto, acquista una «casa solariata a tre solai con chiostro, due terrazzi e altre sue pertinenze» posta tra via San Martino e vicolo del Torti, confinante con la dimora di Curtio Lanfranchi.

I del Torto, originari di Lari, erano dei pellicciai che avevano assunto straordinario rilievo nel XV secolo grazie ai profitti ricavati dalle attività mercantili. A Nanna vedova del Torto, proprietaria del palazzo in via San Martino, si deve la costruzione nel 1591 del cavalcavia sopra il chiasso del Torti, che serviva per collegare la sua dimora a quella del Pontolmo. tale cavalcavia, caratterizzato da un arco a volterranea, è tutt’oggi esistente, e rappresenta il limite tra la proprietà dei Fiumi e Fossi e quella dei dal Borgo, oltre il vicolo.

Nelle note delle spese, risalenti al 25 marzo 1595, la vedova annotava di aver terminato la facciata del suo palazzo su via San Martino e di aver fatto realizzare a uno scalpellino cinque finestre al terzo piano, tre al centro, quattro mezzanini e altre quattro finestre al primo piano, per una spesa complessiva di circa seicento scudi.

La facciata, come veniva descritta nel 1595, differiva da quella attuale in cui solo le aperture del terzo piano si sono conservate nel numero, nella forma e nella cornice di rifinitura in pietra serena. la pietra serena era l’elemento caratterizzante dell’architettura pisana nel XVI secolo che, non ancora sensibile alla moda delle facciate decorate a graffito, si distingueva per la raffinata sobrietà del rapporto tra i pochi elementi decorativi in pietra o in marmo e l’uniformità dell’intonaco.

L’assenza, sulla facciata, di una perfetta simmetria, speculare rispetto all’asse verticale centrale, confermava la presenza di vincoli di strutture preesistenti. Il palazzo rimase di proprietà della famiglia del Torto fino al 1818, a tale data risultava composto da «tre piani con mezzanini, un terrazzo sopra al tetto, la stalla, la rimessa e il chiostro con fonte, pozzo e pila». Un braccio di fabbrica univa, all’altezza del primo piano, il palazzo del Torto con quello della famiglia dal Borgo, separati dal vicolo del Torti con una volta a botte, che sosteneva la struttura. a causa di gravi problemi economici e ingenti ipoteche l’ultima erede del torto, Anna del Torto del Mosca, alienava il palazzo alla famiglia della Fanteria.

Il palazzo di Curtio Lanfranchi, situato tra Via San Martino e il Lungarno, testimoniava in pieno la volontà del proprietario di trasformare la sua antica residenza, frutto probabilmente dell’unione di due case-torri, in una dimora di rappresentanza. un edificio a tre piani fuori terra, con due mezzanini, e un seminterrato, costituito da una serie di ambienti coperti con volte a mattoni. Perfetto era l’equilibrio tra i pieni e i vuoti, con sette aperture che si ripetevano in tutti e tre i piani, e le ornamentazioni della pietra serena fiorentina, che scandivano i contorni delle aperture in modo da alleggerirne i profili fino alla sommità dell’edificio. timpani semicircolari spezzati riquadravano in alto le aperture, accogliendo sopra la porta lo stemma de Lanfranchi, e sulle finestre due anfore.

La famiglia Lanfranchi commissionò ad Agostino Ghirlanda le decorazioni interne della volta della sala al pian terreno e di quella al piano nobile, raffiguranti rispettivamente il Bagno delle Ninfe e l’Olimpo con gli Dei. Anche le grottesche che decoravano le volte delle scale principali erano di pregevole fattura, testimonianza di come le famiglie pisane, nel XVI secolo, intendevano adeguarsi, pure negli interni, alla magnificenza e al decoro dei più prestigiosi palazzi fiorentini.

Curtio Lanfranchi non risiedeva nel palazzo, ma ne deteneva solo la proprietà in quanto nel 1589 imponeva il pagamento di un affitto di scudi centoventi ai residenti della sua dimora.

Nel XVII secolo il palazzo veniva alienato più volte e addirittura contemporaneamente a Antonio Pallavicino di Genova e a Valerio e Camillo Campiglia, per passare poi nel 1629 ai Pucciardi. ma il fallimento di quest’ultimi decretava l’alienazione del palazzo al pubblico incanto. Se ne aggiudicò l’acquisto Antonio Campiglia, che iniziò una lunga controversia con il “proprietario” genovese. Agli inizi del XVIII secolo il palazzo diventava sede della magistratura dei consoli del mare. in una descrizione dell’epoca risultava costituito da «due piani con mezzanini intermedi, cortile, orto, fonte, pozzo, pila, stalla e rimessa, e duplice ingresso da via san martino e da Lungarno», confinante a levante con vicolo Mozzo detto dei Consoli e con il palazzo di Battista e Antonio Del Torto, e a ponente con la Prioria di San Sepolcro. Alienato nel 1784 prima alla famiglia Balbiani, e successivamente a Giovanni e Felice Galli. Il lotto nel quale sarebbe sorto il palazzo Franchetti, compreso tra Lungarno a nord, vicolo Del Torti a est, via San Martino a sud, le proprietà della Prioria di San Sepolcro a ovest, risultava nel 1783 13, suddiviso in tre distinte proprietà: i Consoli del Mare, i del Torto e Antonio Mannaioni.

Antonio Mannaioni Inghirlani, nel 1783 possedeva due case in cura di San Martino in Kinzica, confinanti con il Lungarno e con il vicolo del Torti. una era a due piani, con pozzo e pila, e rimaneva sul retro di un piaggioncino in cui si trovavano trentacinque buche per il grano. l’intera proprietà, piaggione e casa, confinava a nord con via Lungarno, a ovest con vicolo mozzo detto dei Consoli, a sud con il cavalier Giovanni Battista e Antonio del Torto, infine a est con vicolo detto del torti. L’altra casa di sua proprietà a due piani con terrazzino, orto, fonte, pozzo, pila, rimessa e stalla, sempre sul Lungarno, era separata dalla precedente dal vicolo del Torti, e confinava con il palazzo dei dal Borgo, e col vicolo dal Borgo.

Ad Antonio Mannaioni Inghirlani, succedeva nel 1818 Ferdinando Sbrana, che stipulava un contratto con una duplice servitù «altius non tollendi et nec prospectui nec luminibus officiatur» a favore di Flaminio dal Borgo, per la casa di propria abitazione posta su via San Martino e confinante con il vicolo del Torti. Tale “servitù” consisteva nella promessa da parte di Ferdinando Sbrana e dei suoi futuri eredi, di non innalzare i muri che cingevano il piaggioncino e di non edificare niente sullo stesso, inoltre questa sarebbe rimasta in vigore fino a quando fossero esistiti eredi dal Borgo, come confinanti con la di lui proprietà.

Intanto nei primi decenni del 1800 i Franchetti, negozianti ebrei residenti a Livorno, acquistavano una serie di beni immobiliari, con l’obiettivo di dimostrare le loro disponibilità economiche e il livello di ricchezza da loro raggiunto, non solo a Livorno, ma anche nella vicina Pisa, dove in quegli anni era possibile acquistare signorili abitazioni nel centro storico a buon prezzo, dotate di giardini, corti, e fontane. la pianta della città redatta dall’ingegnere Niccolaio Stassi, con l’elenco delle fonti d’acqua pubbliche e private, mostrava che una di esse confluiva proprio nel giardino del palazzo già dei consoli del mare, allora dei galli 16 acquistato poi dai Franchetti.

Abram e Isach del fu Raimondo Franchetti, animati dalla volontà di possedere uno dei più bei palazzi pisani, che era stato un tempo sede del potere economico e simbolo di rappresentanza della dominante nel territorio toscano, trovarono in questa una dimora, avente un duplice affaccio, uno sul Lungarno e l’altro su via San Martino, proprio quello che cercavano.

Agli inizi del XIX secolo quando i Franchetti proposero di realizzare il loro progetto di riunificazione, la proprietà risultava frazionata tra i galli proprietari dell’ex palazzo dei Consoli del Mare, molto noto per gli affreschi del Ghirlanda; i della Fanteria, che avevano su via San Martino il palazzo già della famiglia del torto; la casa d’abitazione e il piaggione di Sbrana, e infine il vicolo mozzo detto dei consoli che separava le proprietà Galli-Sbrana. I due fratelli Franchetti iniziavano il loro progetto nel 1833, acquistando per primo l’ex palazzo già dei Consoli del Mare. Questo era costituito da cantine sotterranee coperte con volte reali, dal piano terra, dal primo piano, da un mezzanino intermedio, e da un secondo piano con soffitti a palco e a volterranea. la porta d’ingresso del palazzo era sovrastata da un’arme con mascherone e due teste di montone, che a quanto si diceva era di «illustre scalpello». Aveva inoltre un cortile con una fontana, il giardino chiuso tra da due muri alti quaranta pertiche, di grande significato sociale a quel tempo, e un capannone, con accesso da Lungarno, in cui erano conservati i vasi per gli aranci o i limoni.

Con l’atto del 13 febbraio 1833, Abramo e Isach Franchetti, acquistavano da Ferdinando Sbrana la casa d’abitazione con ingresso su vicolo del torti, e il piaggione posto sul lato nord confinante col Lungarno.

La zona dove sorgeva il piaggione era rimasta da secoli non edificata perché, secondo la tradizione era l’area dove un tempo si trovava il palazzo del conte Ugolino della Gherardesca, raso al suolo nel 1288 in occasione della condanna del conte. L’atto notarile del 1833, che sanciva il passaggio di proprietà da Sbrana a Franchetti, ricordava quell’evento precisando che, secondo la leggenda, quell’edificio sarebbe stato demolito «con l’apposizione solita del sale».

Qualche tempo dopo i due fratelli Franchetti completavano il loro progetto acquistando l’ex-palazzo del torto, dai della Fanteria a cui era passato nel 1833, e il vicolo mozzo detto dei consoli, dal comune. il vicolo aveva avuto fino ad allora come unica funzione quella di dare accesso alle case d’abitazione Balbiani, Sbrana e della Fanteria, ma avendo i Franchetti riunite le suddette proprietà, non aveva più ragione di esistere.

Tutti questi edifici di cui Abramo e Isach risultavano proprietari nel 1833 erano talmente dissimili tra loro che la realizzazione di un complesso unitario sarebbe stata possibile solo grazie a un progetto architettonico finalizzato a valorizzare e armonizzare le singole parti. A questo scopo i Franchetti si avvalsero di uno dei più rinomati architetti pisani del tempo, Alessandro Gherardesca, che con un progetto organico riunificò i due palazzi con fronte su via San Martino e inserì due ali sporgenti a forma di cavallo protese sul Lungarno. eliminò così il piaggione, demolì la casa sbrana, di scarso valore architettonico, così come la limonaia sita su Lungarno, e creò un grande giardino arricchito con piante di diverso genere.

Alessandro Gherardesca nel 1838 ebbe l’incarico di coadiuvare l’ingegnere Gaetano Becherucci nella ricerca di una nuova sede per il tribunale civile, che a seguito del motuproprio granducale del 1838 era stato completamente riformato. da un unico tribunale civile vennero fondati tre distinti istituti, il tribunale criminale per i reati lievi, il tribunale di prima istanza per le pene fino all’esilio compartimentale, e la corte regia di Firenze per i reati più gravi. Nasceva quindi la necessità di una nuova e ampia sede per accogliere le nuove istituzioni, essendo quella antica, posta in piazza dei Cavalieri 24 non più sufficientemente ampia, furono così vagliati diversi palazzi pubblici, ma non ne venne rintracciato uno che avesse le caratteristiche esplicitamente richieste dalla camera di soprintendenza comunitativa, nominata responsabile dell’intervento; si passò quindi a esaminare i palazzi privati. Tra le numerosi sedi proposte vi furono il convento di Sant’Anna, il palazzo Silvatici, il palazzo Poschi, la chiesa di San Sebastiano con le confinanti abitazioni e il palazzo Franchetti, posto in una felice posizione tra Lungarno e via San Martino.

Alessandro Gherardesca conosceva molto bene il palazzo Franchetti poiché da appena due anni aveva terminato i lavori di restauro e di ammodernamento, che gli stessi fratelli Abramo e Isach gli avevano commissionato. L’originalità nella proposta dell’architetto fu quella di riuscire a unire sapientemente il tema del tribunale con quello dell’accademia delle Belle Arti, nonostante le due istituzioni avessero due distinte ragion d’essere.

Per la sistemazione del solo tribunale, collocato al primo piano del palazzo, la spesa totale non avrebbe superato i duemila scudi, dovendo costruire un muro di mezzo braccio per ampliare la futura sala delle udienze civili posta nell’ex palazzo della Fanteria con affaccio in via San Martino, e abbassare il piano di tale sala per uniformarlo col resto dell’edificio. inoltre prevedeva di realizzare una grande finestra a emiciclo per illuminare convenientemente il salone principale affrescato dal Ghirlanda, e adibirlo poi a sala delle udienze criminali.

A tale cifra si aggiungevano tremilacinquecento scudi se al tribunale fosse stata riunita anche l’accademia delle Belle Arti. Tale istituzione collocata al piano terra, con ingresso distinto da quello del tribunale, avrebbe occupato i due nuovi rondeaux, cioè le ali est e ovest del palazzo, e come unica aggiunta avrebbe costruito due sale con il vestibolo nel piazzale per permettere l’ingresso dalla parte di Lungarno 25.

Becherucci non vedeva di buon occhio la proposta del Gherardesca di unificare in un unico ambiente tribunale e accademia, per questo poneva l’attenzione, nella sua relazione conclusiva datata 1839, sulla dimensione delle stanze, sulla scarsa illuminazione e infine sull’eventuale divieto da parte di qualcuno di costruire nel giardino. l’ingegnere si riferiva al cavalier dal Borgo, che aveva stipulato con Ferdinando Sbrana nel 1818, la «servitù di visuale» impedendo a tutti i residenti dell’ex palazzo Sbrana, ora parte della residenza Franchetti, e di palazzo Carmignani, di costruire in altezza nei loro giardini o di innalzare muri di confine.

Il palazzo Franchetti, essendo il risultato dell’accorpamento di due dimore, quelle delle famiglie galli e della Fanteria, presentava delle incongruenze architettoniche e dei dislivelli nei piani di calpestio, ben visibili da via San Martino, per questo motivo la realizzazione della seconda sala per le pubbliche udienze civili, da ricavarsi nell’antica casa dei della Fanteria, avrebbe comportato ingenti modifiche strutturali.

Il 23 dicembre 1839 l’ingegnere sottoispettore Rodolfo Castinelli giudicava il progetto di ristrutturazione del palazzo Franchetti proposto dal Gherardesca eccessivo se fosse stato riservato al solo tribunale, e insufficiente qualora vi si fosse voluta sistemare anche l’accademia. nessuna delle due proposte convinceva la camera della soprintendenza comunicativa sulla scelta di palazzo Franchetti, anche perché la relazione che Becherucci aveva presentato ne dava un giudizio fortemente critico, esteso ai tempi, ai costi e addirittura ne metteva in dubbio la fattibilità.

I dal Borgo, con la stipulazione della «servitù altius non tollendi et nec prospectui nec luminibus officiatur» 26, dal 1818 erano riusciti a mantenere inalterata la visuale che godevano sul Lungarno, nonostante la presenza di palazzo Carmignani e la casa con piaggioncino di Sbrana. Flaminio dal Borgo e i suoi eredi avevano imposto il pagamento di lire diecimila, nel caso in cui i proprietari di dette dimore non avessero rispettato la “servitù di prospetto e di luce”, rialzando i muri di confine o collocando alberi nel piaggioncino. tale istanza ipotecaria veniva definita “continua e perpetua”, fino a quando i dal Borgo avrebbero mantenuto in detto luogo la propria residenza.

Nel 1888 Elisa figlia di Abramo Franchetti rinunciava a tutti i diritti sul palazzo in via San Martino, proprietà famigliare dal 1833, e lo cedeva a Vincenzo Ciampolini, ricco imprenditore fiorentino che affittava separatamente i diversi locali del grande palazzo, composto da una stanza nel sotterraneo, quattordici vani al piano terreno, sette nel mezzanino, diciassette al primo piano, sedici al secondo, e due al terzo. Uno dei primi locatori del palazzo fu il dott. Felice Bocci, direttore del consorzio di Fiumi e Fossi, che già nel 1899 vi si era insediato. Agli inizi del XX secolo l’immobile era affittato a più inquilini, il tutto rendeva un’entrata annua di circa cinquemila lire, un affare non molto conveniente per un imprenditore del calibro di Ciampolini, che aveva spostato fuori Pisa le proprie mire espansionistiche. nel 1908 il proprietario iniziava trattative di vendita dell’intero immobile col consorzio dei Fiumi e Fossi, a eccezione degli affreschi che sarebbero stati asportati a spese e del venditore e che avrebbe altresì provveduto a far realizzare una nuova decorazione nel salone in base ai desideri dell’acquirente.

Nel 1910 l’imprenditore concludeva la vendita dell’immobile con il giardino come beni liberi da ipoteca 32. Ciampolini aveva già da tempo mosso causa contro i precedenti proprietari Franchetti, e aveva stabilito che, qualora non fosse riuscito a trovare una soluzione con essi, avrebbe di persona estinto l’ipoteca che deprezzava l’immobile e che impediva al consorzio «di usufruire del terreno fabbricativo». rimaneva escluso dalla vendita il solo affresco che decorava la stanza a pian terreno, con l’accordo che, qualora il ministero della Pubblica istruzione avesse concesso il distacco, Ciampolini si impegnava a restaurare e colorire in modo decoroso la volta rimasta priva dell’affresco, in caso contrario il consorzio l’avrebbe acquistato.

Vincenzo Ciampolini, già nel 1908 si rivolgeva alla ditta Stefanoni di Bergamo per esaminare gli affreschi che decoravano il suo palazzo, e per valutare la possibilità di distaccarli e venderli separatamente. Francesco Stefanoni definiva gli affreschi del salone «splendidi, come esecuzione artistica e come conservazione», mentre quelli della scala, a suo giudizio, si presentavano un «po’ sciupati, non tanto però da abbandonare l’idea di trasporto, essendo per forma e dimensione collocabilissimi in vari luoghi».

Ciampolini era in trattative di vendita con il direttore del museo di Lipsia, Bulard Grant, per l’affresco al piano terra, raffigurante il Bagno di Diana, al prezzo di ottomila lire, ma il ministero ne vietava il distacco e la rimozione 33. mentre il proprietario fiorentino affermava che gli affreschi al piano terra non avevano alcuna relazione artistica coi dipinti del salone 34, augusto Bellini Pietri, presidente dell’associazione dell’arte, dichiarava che gli affreschi «formavano un insieme di bellezza architettonica tale che la rimozione del soffitto dipinto ad affresco avrebbe causato un danno alla comunità pisana». Ciampolini pretendeva per gli affreschi settemila lire, ma nello stesso tempo era debitore al consorzio di diecimila lire, a causa dell’ipoteca accesa per la prima volta nel 1818 a favore dei dal Borgo. Perciò concordava di estinguere i suoi debiti pagando al consorzio la differenza di tremila lire, sicchè quest’ultimo diventò proprietario a tutti gli effetti dell’intero palazzo e delle decorazione nel 1914 35.

Per primi i fratelli Franchetti, nel XIX secolo, avevano denunciato lo stato di degrado in cui versavano le decorazioni della volta delle scale e ne avevano commissionato i restauri a “maestri restauratori” 36. Il consorzio nel 1910, proponeva di nuovo un intervento conservativo sui dipinti e si rivolgeva a Domenico Fiscati, che consigliava il distacco delle pitture, il consolidamento delle crociere e la successiva ricollocazione dei dipinti.

Il nuovo presidente del consorzio, il conte Giovanni Tadini Buoninsegni, resosi conto del cattivo stato di conservazione delle decorazioni del palazzo dapprima denunciò alla soprintendenza lo stato di degrado nel quale si presentavano gli affreschi, poi presentò un preventivo di spesa per il loro restauro stilato dal restauratore Walter Benelli nel 1973 37. Solo nel 1981 la soprintendenza intervenne sugli affreschi della volta della prima rampa di scale, raffiguranti scene di amore e caccia di Diana e Atteone. Recenti saggi effettuati sulle pareti dello stabile, hanno riportato alla luce decorazioni, celate da successive ridipinture.

I diversi lavori che si sono susseguiti negli anni, per riparare gli ingenti danni causati dallo scoppio di mine nel 1944 40, hanno prodotto una trasformazione radicale della sede, un cambiamento d’uso che ha visto una nobile residenza ottocentesca divenire sede di uffici e appartamenti.

Il palazzo Franchetti, sede di Pisa dell’attuale “Consorzio 4 Basso Valdarno” (ex consorzio “Fiumi e Fossi”), ha un alto valore rappresentativo dal punto di vista architettonico e decorativo, in quanto conserva le pitture del ghirlanda, autorevole artista seicentesco, e le decorazioni a grottesche, raro esempio di ornamentazione cinquecentesca in Pisa.

Testo tratto da “Palazzo Franchetti, una dimora sul Lungarno pisano” di Martina Giraldo